Il “dottorcosta”

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Mi è capitato tra le mani un libro del dottor Claudio Costa , colgo l’occasione per pubblicare integralmente alcune pagine tratte dal suo libro “dottorcosta”, le ho rilette a distanza di 17 anni dalla mia prima lettura, mi colpirono profondamente allora come oggi , descrivono la grandezza interiore di questo grande uomo .
Ebbi l’occasione di incontrarlo di persona un paio di volte , la prima volta nel 2002 nel paddock di Monza in occasione di una gara del mondiale superbike , dove gentilissimo scrisse una dedica a mio figlio Alessandro sul libro in questione,  e una seconda volta nel 2007 , a seguito di un colloquio telefonico, in cui lo pregai di togliere il gesso dopo 10 giorni , ad una caviglia di mio figlio (ingessato frettolosamente in un ospedale bolognese a seguito di un infortunio calcistico) , aveva una gara di kart la domenica, mi presentai spiegando l’accaduto e gli dissi .”Lei è il medico dei piloti , mio figlio è un pilota in erba ….” (aveva 11 anni correva in kart da 3) , gli spiegai l’accaduto e terminai la telefonata con la frase “lui domenica vuol correre”. Mi rispose “Venga ad Imola con le radiografie” , inutile dire che il giorno successivo eravamo presso il suo staff , visionò le radiografie e sentenziò “togliamo il gesso non si possono tarpare le ali a chi sta imparando a volare”. Era un giovedì, la domenica corse e giunse 4°, ai piedi del podio, per i medici dell’ospedale avrebbe dovuto portare il gesso 30 giorni , grazie “dottorcosta”.
Mi permetto di pubblicare integralmente un paio di pagine di pagine tratte dal suo libro “dottorcosta” che descrivono il rientro ai box di Carlos Checa , dopo il suo ritorno alle gare sul circuito di BRNO, nel mondiale 500 , dopo essere stato forzatamente assente per alcune gare , a causa di un terribile incidente in quel di Donington qualche settimana prima, nel quale a seguito di una violenta botta alla testa un ematoma gli aveva provocato una momentanea cecità.

“Domenica 23 agosto 1998 , a BRNO, stavo uscendo dal box di Mick Doohan triste come lui per il fatto che la sorte aveva assegnato al pilota australiano, con una caduta al secondo giro, una strada difficilissima, quasi impossibile, per raggiungere il titolo mondiale , che pochi attimi prima della corsa sembrava già vinto. Fu in quel momento che mi venne in mente Carlos Checa.
La gara stava per finire. Presi ad avvicinarmi al box del pilota spagnolo e , mentre lo facevo, avvertii una strana sensazione, come se stessi per incontrarmi in un luogo diverso dal solito, quasi sacro. Gli uomini che lo abitavano erano gli stessi di tutti i giorni, le teste erano tutte rivolte come di consueto ai televisori, ma qualcosa di indefinibile, di misterioso, aleggiava nell’aria di quel box. Carlos terminò la corsa tra la soddisfazione generale e tutti gli astanti si disposero – il perché non lo spiegare – come frati devoti ai lati di un altare non ancora visibile,
Un attimo, poi la Honda numero 8 piombò in questo spazio arrestandosi come un animale stanco, ma ancora possente. Le voci comunicarono allo spagnolo “tante cose” , ma i toni e le gioie rimasero contenute, quasi riservate. Il pilota chinò la testa sulla moto, come per baciarla , poi scivolò giù, senza paura, distendendosi supino sul pavimento. Le mani erano appoggiate sulla fronte quasi a proteggere gli occhi , quegli occhi che a Donington avevano smesso di vedere la luce del sole, condannati da un morbo crudele al buio, alle tenebre e alla cecità.
Con un sussurro indistinto Carlos disse: ”Sono stanco …..”. Però gli occhi erano vivi , pieni di luce. Mani esperte controllarono la ferita vecchia di qualche settimana, che solcava e attraversava parte del suo corpo. I polsi battevano regolarmente e il respiro anche se affannoso, non preoccupava. La luce negli occhi del pilota diventò ancora più intensa , profonda , quasi misteriosa. Carlos tese le mani, non si sa a “chi”. Qualcosa di invisibile lo sollevò. Si appoggiò con una mano alla spalla di Sito Pons, più amico che caposquadra, e con l’altra alla moto. I suoi occhi vedevano con una luce che non era quella del sole di tutti i giorni , ma proveniva da “un sole” interiore che gli rischiarava l’universo dell’anima.
Lo lasciai lì con tutti gli amici e avviai verso la victory line , quello spazio ritagliato per il cerimoniale della vittoria e per il podio. Parlai con Alex Barros che aveva gli occhi infiammati e infuocati dal vento. Strinsi le mani ad Alex Criville che era riuscito a correre aiutato dalle medicine per guarire una tormentosa malattia che lo aveva afflitto fin dalle prove. Max Biaggi che aveva vinto, era attorniato e accerchiato da moltissimi, da una calca speciale, diversa dal solito per la presenza di divi, in primo piano la tenera e “quasi” bella Anna Falchi, alla quale Max disse : “Grazie ….”.
In questa cerimonia mi mancò qualcosa. Mi mancò Mick Doohan. Mentre pensavo a lui mi invase la nostalgia, in un attimo vidi tutta la sua vita , in un attimo vidi con la luce degli occhi di Carlos Checa, e allora con un brivido compresi chi era stato ad aiutare il pilota spagnolo a sollevarsi e a sorreggersi nel box del team Pons. Era stata colei che nella foresta di Sherwood, alle soglie dell’ospedale di Nottingham, aveva incontrato Carlos Checa in un letto dell’ospedale dove giaceva in gravissime condizioni per l’emorragia e “terribilmente” cieco a causa di un morbo sconosciuto. La Signora vestita di Nero aveva generosamente risparmiato e guarito Carlos Checa divenendone sua amica. Colei che nessuno ricorda, ne vuole ricordare mai. Colei che San Francesco chiamava affettuosamente Sorella Morte!”

tratto dal libro “dottorcosta” di Claudio Marcello Costa.

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