Kawasaki 500 H1 Mach III

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Quest’estate ho provato un’esperienza che desideravo da sempre , una di quelle cose che dopo averlo fatto te lo ricordi per tutta la vita, ho provato la Kawasaki 500 H1 Mach III.
Una moto un mito degli anni ’70 , avrò avuto 13/14 anni quando la vidi per la prima volta, anzi la sentii , un sibilo, in seguito tutti a contribuire alla leggenda, terribile, pericolosissima, una bara viaggiante.
Un amico ne ha restaurata una , non ho potuto resistere , appena è venuto a casa mia a farmela vedere dopo alcuni complimenti , la domanda era d’obbligo, fammela provare.
Salgo , scalcio per metterla in moto parte subito , il suono è stupendo , ad ogni colpo di gas il tre cilindri urla rabbioso , metto la prima (in alto come tutte le altre) , l’amico mi blocca “attento frena poco”, parto , è piacevole da guidare , il rombo è incredibile , capisco la raccomandazione , frena poco o diciamo che non frena , appena presa un po’ di confidenza , non si può resistere al primo rettifilo apro tutto , infilo le marce una dopo l’altra , il motore urla , la moto vibra, l’adrenalina sale a mille , trattengo il respiro , di colpo mi trovo come fuori dal mondo . Pochi secondi e chiudo il gas , il cervello si ricollega , faccio ritorno alla base lentamente come un turista qualunque , me la godo , la Mach III ritorna docile , piacevole , il battito ritorna normale .
La rabbia del 500 2T mi rimane dentro , non la scorderò mai.
Storia
Ad inizio ‘67, la Kawasaki Motor Corporation di Los Angeles, azienda importatrice esclusivista per gli USA, dettò le condizioni per il nuovo modello da destinare al mercato statunitense che veniva richiesto particolarmente leggero, dotato di motore a due tempi di 500 cm³, con potenza di 60 CV, grandi doti di accelerazione da fermo e decisa propensione all’impennata. Si trattava sostanzialmente di realizzare una moto volutamente sbagliata che attraverso i pericolosi effetti delle sue carenze, desse alla clientela media, di scarsa competenza tecnica, la sensazione di guidare un bolide di tale potenza da essere domato a fatica.
Nei primi mesi del 1968 furono approntati due prototipi del motore che vennero inviati alla facoltà di ingegneria dell’Università di Osaka per la valutazione. Il raffreddamento del cilindro centrale si mostrò sufficiente, ma il rendimento non diede il risultato richiesto. Il motore fu sottoposto ad una ulteriore studio per l’innalzamento della potenza, a cura del reparto turbine Kawasaki. Nel contempo i tecnici del reparto ciclistica avevano approntato un telaio appositamente studiato per rendere possibile la richiesta “propensione all’impennata”.
Il caratteristico sibilo del motore tricilindrico a due tempi con manovellismo a 120°, vagamente simile a quello dei caccia a reazione, ispirò la denominazione commerciale del nuovo modello: “Mach III”.
La moto
Caratterizzata da un aspetto moderno, da componentistica di qualità e da un livello elevato di finitura, la Kawasaki 500 H1 Mach III ha un telaio a doppia culla chiusa con sospensioni telescopiche e impianto frenante a tamburi, comprendente il motore tricilindrico a due tempi che risaltava particolarmente, sia per il notevole ingombro trasversale, sia per essere il primo propulsore di questa architettura installato su una moto di serie. I valori di potenza e di coppia e le prestazioni dichiarate dalla casa, davvero notevoli per l’epoca, contrastano visivamente con l’esilità della forcella e con il ridotto diametro dei freni.

Il motore, di concezione piuttosto semplice, risulta invece particolarmente robusto, dotato di un albero primario composito, ruotante su 6 cuscinetti di banco e realizzato per sopportare la sovrabbondante coppia motrice. La lubrificazione è garantita da un miscelatore con serbatoio separato e l’accensione è elettronica di tipo capacitivo o con accensione a spinterogeno per il mercato europeo, escluso quello italiano. Tale differenza è dovuta alle severe normative, in vigore all’epoca in molti Paesi europei, contro i disturbi alle frequenze radiofoniche, potenzialmente generabili dall’accensione elettronica. Per il mercato italiano, dove tali normative non erano vigenti, venivano realizzate speciali “H1” ibride, con telaio di tipo europeo e motore di tipo statunitense.
Nell’uso stradale, la moto si dimostra poco adatta all’impiego continuato in città, a causa di problemi di raffreddamento del cilindro centrale, così come alle lunghe percorrenze autostradali per il serbatoio di soli 15 litri, in rapporto all’esorbitante consumo che, a velocità sostenute, scende ben al di sotto dei 10 km di percorrenza per ogni litro di miscela olio-benzina.
Messa in vendita nel 1969 divenne subito un prodotto di riferimento. La linea elegante, le finiture accurate, la buona maneggevolezza e il contenuto prezzo d’acquisto, contribuirono grandemente all’immagine di mercato della “H1”, ma più d’ogni altra caratteristica fece presa sul pubblico la difficoltà di mantenere la ruota anteriore aderente al terreno durante le accelerazioni, restituendo al pilota e agli eventuali spettatori una sensazione di incontenibile potenza del motore.
L’impennata si verifica semplicemente azionando l’acceleratore con una certa decisione, anche in 2ª e 3ª marcia, quando il veicolo ha ormai superato abbondantemente i 100 km/h. Tale effetto è dovuto al posizionamento molto arretrato del motore rispetto alla corretta collocazione, determinando un sensibile disequilibrio dei pesi (43% all’anteriore e 57% al posteriore), un eccessivo alleggerimento dell’avantreno e l’inevitabile instabilità del motoveicolo in fase di accelerazione e in elevata velocità.
Purtuttavia, la “H1” ottenne un enorme successo di vendite sia negli Stati Uniti, sia in Europa, che dimostrò la fondatezza della strategia escogitata dagli esperti commerciali.
L’evoluzione
La 2ª serie “H1A” del 1970, condensò tutte le piccole migliorie apportate al modello nel corso della produzione dei primi 20.000 esemplari, limitando i cambiamenti al nuovo serbatoio senza incavi per le ginocchia e a differenti colorazioni e grafica della carrozzeria.
Nel 1971, la 3ª e 4ª serie “H1B” e “H1C”. La “H1B”, venne dotata di un efficiente freno a disco anteriore, ma per compensare il maggior costo di produzione, era stata prevista la sostituzione dell’accensione elettronica CDI con un sistema a puntine, di difficile regolazione. Anticipando le prevedibili lamentele dei clienti USA, per il solo mercato americano fu messa in listino anche la versione “H1C” che ricalca la precedente “H1A”, con freno a tamburo anteriore e accensione CDI. Entrambe le versioni portano le nuove grafiche e colorazioni.
La 5ª serie “H1D” del 1973, dopo oltre 70.000 esemplari prodotti, segnò una decisa svolta nell’evoluzione del modello. A causa delle restrizioni imposte dalla legislazione statunitense in materia di inquinamento, il motore fu completamente rivisto e, nell’occasione, venne progettata una nuova ciclistica. La radicale rivisitazione dei tecnici giapponesi comprese l’allungamento del passo per alloggiare il motore in posizione meno arretrata, l’aumento dell’efficienza frenante e la normalizzazione dei consumi, attraverso la diminuzione della coppia. Ne risultò un sostanziale miglioramento della stabilità e della sicurezza di guida. A fronte di una diminuzione dei consumi intorno al 15%, la potenza massima rimane pressoché invariata, così come le prestazioni in velocità e accelerazione.
Le successive serie “H1E” e “H1F”, del 1974 e 1975, furono caratterizzate da piccoli aggiornamenti estetici e tecnici (per l’H1E il codino resta a tinta unita mentre per l‘H1F riprende la livrea del serbatoio. Sui fianchetti dell’H1E nella colorazione verde appare dello stesso colore la scritta “Capacitor Discharge Ignition” così come sulla versione bordeaux appare il medesimo colore sui fianchetti. Scompare nell’ultima versione H1F e resta solo la scritta “500” di color bianco su sfondo nero anziché cromate con sfondo medesimo. Migliorato il ‘comfort’ di marcia e a semplificare la manutenzione, (motore montato su sylent block) a conferma del definitivo abbandono della veste sportiva.
L’8ª e ultima serie “KH” del 1976, venne così denominata per uniformità ai modelli turistici prodotti dalla Kawasaki e si distingue per l’ulteriore depotenziamento a 52 CV del motore, il cambio ha ora la sequenza tradizionale, la prima in basso e le altre in alto. La KH 500 rimase in vendita presso le concessionarie fino al 1978.

Caratteristiche tecniche – Kawasaki H1D – Mach III del 1973

Dimensioni e pesi
Interasse: 1410 mm
Massa a vuoto: 185 kg
Serbatoio: 16 l. dei quali 3 di riserva
Meccanica
Tipo motore: tricilindrico in linea frontemarcia a 2T con albero primario composito su 6 cuscinetti di banco e manovellismo a 120°
Raffreddamento: ad aria
Cilindrata : 498 cm³ (Alesaggio 60 x Corsa 58,8 mm)
Distribuzione: a incrocio di corrente, con 5 luci per cilindro e pistoni piatti
Alimentazione: 3 carburatori Mikuni
Potenza: 59 cv a 8.000 giri
Coppia: 56 Nm a 7.000 giri/min
Frizione: multidisco (15) a bagno d’olio con comando a cavo
Cambio: in blocco a 5 marce con comando a pedale sulla sinistra
Accensione : elettronica di tipo CDI
Trasmissione: primaria con ingranaggi sulla destra e secondaria a catena
Avviamento a pedale
Ciclistica
Telaio a doppia culla chiusa
Sospensioni
Anteriore: forcella teleidraulica
Posteriore: forcellone oscillante con due ammortizzatori regolabili su 3 posizioni
Freni
Anteriore: a disco con pinza a doppio pistone
Posteriore: a tamburo monocamma ∅ 180 mm
Pneumatici : anteriore 3,25 x 19″; posteriore 4,00 x 18″
Prestazioni dichiarate
Velocità massima : 192 km/h
Accelerazione : da 0 a 400 metri in 12,83 s.
Consumo medio: 12 km/l
Ruote a raggi

 

 

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